Ranking reputazionale dei lavoratori su piattaforma: discriminazioni di genere e feedback degli utenti

Abstract

Una caratteristica distintiva del lavoro on-demand tramite piattaforma è la facilità con cui è possibile esternalizzare la valutazione della qualità del servizio ai clienti. Per stabilire standard minimi di qualità del servizio, le piattaforme aggregano i feedback degli utenti e formano un ranking reputazionale dei lavoratori, il quale, spesso combinato con altri criteri, ha un impatto diretto sulle loro opportunità e condizioni di lavoro. L’articolo indaga se e quando l’impiego di tali ranking possa costituire una discriminazione ai sensi del diritto antidiscriminatorio dell’Unione Europea. In primo luogo, si sostiene che l’impiego di sistemi di ranking reputazionale non possa rientrare nell’eccezione del “requisito occupazionale genuino e determinante”. Sebbene l’analogia spesso riscontrata tra la sentenza Bouignoui della Corte di Giustizia e i sistemi di ranking non sia del tutto lineare, si può comunque sostenere che l’eccezione non si applicherebbe ai meccanismi di ranking reputazionale. Facendo poi riferimento alla possibilità che l’esito indirettamente discriminatorio di un ranking reputazionale sia oggettivamente giustificato, si sostiene che, nonostante la misurazione delle prestazioni dei lavoratori possa essere considerata un fine legittimo, non si devono presumere né l’appropriatezza né la proporzionalità della misura impiegata per il conseguimento di tale fine, e che tali requisiti sarebbero difficilmente soddisfatti. Per concludere, l’articolo evidenzia come la questione della discriminatorietà dei ranking reputazionali esemplifichi un più ampio interrogativo del dibattito circa la c.d. algorithmic accountability, ovvero se gli algoritmi possano essere ritenuti responsabili di perpetuare pregiudizi sociali esistenti – anche estraneamente pervasivi, come il sessismo – e conclude criticando la narrazione spesso scelta per inquadrare tale problema.